La storia

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Parte di queste notizie sono tratte dal libro “Sua maestà il tortellino” di Giancarlo Roversi e Giorgio Maioli casa editrice Re Enzo e da “I cavalieri del gusto” di Margherita Volpi, edizioni Enopanorama.

Attorno al tortellino, incarnazione del mito gastronomico bolognese, sono nate innumerevoli leggende, parte integrante della cultura e del folclore della città. La prima riguarda il luogo e la data di nascita.

In passato, fra Modena e Bologna erano sorte infinite dispute sulla paternità del tortellino. Non a caso i rapporti fra le due città non erano sereni. Dopo lunghe e dotte discussioni, senza toni accesi o azioni violente (come per la “Secchia rapita”), la storica diatriba fu appianata a livello salottiero, con un “gentleman agreement” fra intelligenti buongustai.

La simpatica ironia dell’ing. Giuseppe Ceri, fiorentino di nascita e bolognese di adozione, direttore del giornaletto satirico “La Striglia” e poeta per diletto, alla fine dell’800, mise d’accordo bolognesi e modenesi. Il Ceri indicò Castelfranco Emilia come culla del tortellino. Fu una scelta felice e diplomatica, infatti Castelfranco Emilia si pone a metà strada fra le due città; si trova in provincia di Modena, ma sotto la diocesi di Bologna ed in passato, con il nome di Forte Urbano, faceva parte del territorio delle Legazioni Pontificie. Si tratta ovviamente di un gioco, senza nessuna conferma documentale.

Il Ceri, parodiando la Secchia Rapita (poema eroicomico scritto dal Tassoni nel 1614), completò la storia immaginando che Marte, Bacco e Venere fossero giunti in una locanda di Castelfranco, per dar manforte ai modenesi. Marte e Bacco di buon ora si alzarono mentre Venere rimase a letto. Svegliatasi e trovandosi sola si attaccò al campanello per chiamare l’oste, che giunto, trafelato, trovò la dea tutta discinta. Colpito dalla bellezza del divino ombelico, scese in cucina, prese una sfoglia fresca e “l’oste, che era guercio e bolognese, // vedendo di Venere il bellico // l’arte di fare il tortellino apprese.

Incredibile a dirsi: prendendo sul serio questa storiella, c’è chi arriva ad ubicare l’evento fatidico nell’antica locanda della Dogana.

A tirare ancora in ballo l’ombelico femminile fu il bolognese Vittorio Leonesi, arguto rimatore, che al posto delle dea Venere pose la bellissima Elena di Troia, il cui ombelico viene così paragonato: “gemello egli era a picciol tortello”.

Ostilio Lucarini, nella commedia dialettale “quéll ch’ha inventà i turtlein” rappresentata nel 1925, racconta del cuoco Pirulein, trovato addormentato nel letto della padrona Levreina, facendo scoppiare uno scandalo fra moglie e marito. Ma Pirulein afferma che non ha commesso niente di male; soltanto di essersi trovato ubriaco ed estasiato dall’ombelico della signora Levreina.

L’artista Augusto Maiani, detto Nasica (1857-1959), pittore e caricaturista bolognese, nella storia romanzata del tortellino tira in ballo persino due Papi. Uno è Urbano II, che, nel 1095, ai tempi della prima crociata, avrebbe offerto un lauto pranzo a base di tortellini in onore dei crociati prima della loro partenza. L’altro è l’Antipapa Alessandro V, ospite di Bologna nel 1410. L’avvenimento non appare veritiero, anche se Alessandro V morì effettivamente a Bologna nel 1410, lasciandoci (se non il tortellino) un meraviglioso sepolcro, opera dello Sperandio, nella chiesa di San Francesco.

Sempre su questa linea fantasiosa prosegue l’artista bolognese Alessandro Cervellati (1892 – 1974), riferendo la storiella della prosperosa Dorotea Lapi, che nel 1700 creò il classico ripieno ispirandosi ad un ricettario trecentesco, con “mortadella, prosciutto, petto di tacchino e parmigiano”. Che il tacchino dovesse venire dalle Americhe molto tempo dopo, e che la mortadella entrasse nel ripieno solo nell’800 non spaventa l’autore.

Il Cervellati, pittore, caricaturista e cultore del costume bolognese, offre un’ulteriore versione sulla nascita del tortellino: in essa la protagonista è la signora Adelaide, “bella e agguantata, con guanti di pelle bianca sopra le dita affusolate”, impegnata a presentare i tortellini, nel 1821, alla mensa dei suoi ospiti, personaggi altolocati. Cervellati non ha dubbi, ma lo perdoniamo: il suo migliore allievo si chiamava Giorgio Morandi!

A parte le fantasie, l’estrazione medievale del tortellino pare certa. Tortellos, torteleti e ravioli nacquero nel tardo medioevo, come continuazione delle torte farcite, spiega Massimo Montanari, insigne storico dell’alimentazione. Illustri glottologi fanno derivare il termine tortellino da “torta o tortula” con cui si indicava una pasta ripiena a foggia circolare. Altri lo fanno derivare dal latino “torcere”, cioè dal torcimento in uno straccio delle erbe cotte, che servivano poi per il ripieno.

Dopo tante leggende finalmente giungiamo a documenti storici. In una pergamena del 1112 leggiamo “Tertia pars turtellorum monachorum est” (la terza parte dei tortelli spetta ai monaci). Da una bolla di Papa Alessandro lll del 1169 apprendiamo che una chiesa doveva assegnare “duas partes turtellorum”.

Altre citazioni di tortellos, tortelli, tortellis si ritrovano in molti documenti del 1200. I riferimenti continuano nei secoli successivi, facendo entrare le parole “torteleti” e “ritortelli” nelle consuetudini della lingua. A Bologna, la prima citazione compare nel 1289, in un documento dove si legge che uno studente, incurante del coprifuoco, fu arrestato perché era uscito di notte senza fiaccola ad acquistare “tortellos” per sé e per i suoi amici.

Nel tredicesimo secolo, Salimbene da Adam ricorda che il brodo di cappone è il più ricercato: “togli capponi e lessali e quando siranno cotti con quelle spezie che tu vorrai, rompi in un catino con uova e brodo loro, e gitta farina con mescola forata sopra i detti capponi cotti; e tutto questo si gitti nel brodo e bolla un poco, e chiamasi brodo apolloccato”. Con questo brodo speziato ed addensato di farina si cuocevano i “torteletti”, almeno sino al 1300, ma la loro forma ritorta (o semplicemente ripiegata sui lembi) non è spiegata. Sappiamo solo che era un fazzolettino di pasta ripiegato con una farcia di carni, salumi, uova, spezie, verdure ecc.

In alcuni ricettari del 1300 viene descritta la preparazione dei “torteletti di enula” (pianta erbacea perenne, oggi dimenticata, ma all’epoca molto utilizzata), composti di formaggio, uova, lonza di maiale ed enula, cotti in brodo di cappone.

È interessante osservare che nella parte emiliana la carne, specie di maiale, grazie alla sua elevata disponibilità, era in uso comune nei ripieni, mentre nella parte romagnola, “la Romania”, come da tradizione romana, si utilizzavano i formaggi specie freschi. Da qui la più antica ricetta conosciuta (del XIV secolo) dei tortelli con la ricotta.

Dai ricettari inoltre si evince che il Trecento e il Quattrocento sono stati i secoli d’oro del “torteletto” diretto antenato del tortellino. L’alimentazione è un fenomeno storico e quindi varia costantemente nei secoli con l’evolversi della società e del gusto. Ne è prova lo scarso successo che ebbero i tortellini che Olindo Guerrini, poeta dialettale bolognese, volle presentare alle nozze della figlia di Giosue Carducci, prendendo la ricetta da un antico codice del XIV secolo: “Togli bronza di porco (lombata di maiale) ben cotta e parmigiano fresco passo e spezie dolci e dattari sminuzzati e uva passe e di queste cose fa tortelli”. Come si può notare siamo lontani dalla ricetta attuale.

Però in uno scritto del Maestro Martino del 1518 si comincia ad andare dalla parte giusta: “Togli la bronza (lombata di porco), lessala, battila, e togli cascio fresco, poche uova, spezie forti (noce moscata) e fa un battuto di queste cose. Empile li tortelli, falli cuocere in brodo di cappone o di qualunque (carne) e cascio e peverada (brodo ristretto aromatizzato con formaggio e pepe) per iscodelle”.

Finalmente una ricetta semplice senza frutta secca ma con lonza di maiale, formaggio fresco e noce moscata! Non ricorda forse i tortellini e i cappelletti romagnoli?

Molto interessante è un altro scritto gastronomico del 1518 “ravioli in tempo di carne” con ripieno di “cacio vecchio”, carne di maiale, petti di pollo e brodo di cappone. In questa ricetta troviamo finalmente una misura: “questi ravioli non siano maggiori di mezza castagna” e, per i tempi di cottura, “lo spazio di tre Pater nostri”.

Questa rapida carrellata non poteva esimersi dal ricordare Cristoforo da Messisbugo, uno dei più famosi cuochi del ‘500. Riportiamo di seguito la sua ricetta: “tortelletti grassi a base di seguno” (cioè sego di bue), composti da carne, uova, cannella, uva passa e avvolti da una pasta all’uovo e zafferano, sempre cotti in un buon brodo grasso. Il tutto servito con formaggio, zucchero e cannella.

Bartolomeo Scappi, famoso cuoco papale di origine bolognese, descrive i “tortelletti con polpa di cappone” e quelli con “pancia di porco ed altre materie”. Solo i “torteletti con polpa di cappone” si avvicinano, nella farcia, attraverso le varianti del tempo, alla ricetta dei nostri giorni. La forma più vicina all’attuale si trova nella ricetta del fiorentino Giovanni Del Turco, attivo alla corte medicea nei primi decenni del Seicento; vi si descrivono “agnoletti in minestra” fatti con lasagna sottile, tagliata con lo “sprone e devono avere la forma di una noce e rivolti in su con le dita” e in mezzo rimanga un “trogoletto”, ossia un piccolo foro, sempre cotti in “bonissimo brodo”.

Da questo momento passiamo ad un periodo di oblio; infatti non troviamo alcun riferimento scritto dal ‘600 al ‘700. Non ne fa menzione neanche il famoso testo del 1662 “L’arte del ben cucinare” di Bartolomeo Stefani, che pure amava definirsi “cuoco bolognese”.

Ma i tortellini si mangiavano a Bologna? Per rispondere a questo quesito ci aiuta Giuseppe Maria Mitelli nel celebre “Gioco novo di tutte le osterie di Bologna”, che descrive i piatti tipici delle 49 trattorie esistenti nel 1712. Incredibile: nessuna fa menzione dei tortellini! Per il suo costo elevato. Il tortellino era esclusivo delle feste religiose come Natale e Pasqua, ma la grassa borghesia doveva mangiarlo anche come cibo abituale, poiché lo si poteva acquistare nelle bancarelle di Piazza Maggiore durante tutti i mesi dell’anno, esclusi i quattro della calura.

Ma a che data risale la prima citazione sicura del tortellino?

Nel 1550 nel consueto pranzo offerto ai Senatori vennero servite varie portate fra cui una “minestra di torteletti”. Un’altra citazione del 1708, nel pranzo natalizio dei monaci di S. Michele in Bosco riporta una “minestra di tortellini”. Nei menù settimanali degli ordini monastici, risalenti al XVlll secolo troviamo “tortellini” e “pasticcio di tortellini” (una meraviglia gastronomica ora praticamente sparita).

Nel resoconto dei pranzi dei Gonfalonieri di giustizia di Bologna, (che si alternavano in carica ogni due mesi, per impedire eccesso di potere e corruzione), fra le innumerevoli vivande vi è la “minestra di tortelli in forma grattata”; nella stessa giornata viene servita inoltre “mortadella con fichi e insalata” come antipasto e, alla fine, “torta di riso con zucchero sopra”. Altre citazioni compaiano nei menù del 1765, 1782, 1790 e 1791.

È interessante notare che questi tortellini erano acquistati nei banchetti di Piazza Maggiore, dove sicuramente lavoravano alacremente stuoli di sfogline e il prodotto doveva essere di qualità, se proposto per il Legato Pontificio e i Gonfalonieri. Nell’indicazione della porzione, il numero di tortellini pro capite non era fisso, ma estremamente variabile, forse per la stessa variabilità della grandezza. In ogni caso la quantità, consultando molti documenti, rimane mediamente fra i 40 e i 50 pezzi. Nel tradizionale pranzo offerto dal Gonfaloniere nel 1788 si servirono 40 pezzi a persona.

La ricetta che Alberto Alvisi, cuoco del vescovo di Imola, serviva al Cardinale Barnaba Chiaramonti (che nel 1799 diverrà Papa col nome di Pio VII) oltre alla noce moscata, alle uova, al grana, prevede per la prima volta il midollo di bue. Questa variazione ebbe fortuna, tanto che nel tortellino per tutto l’800 e nella prima metà del ‘900 il midollo era d’obbligo. Attualmente la pratica, a parte alcuni cultori “ortodossi”, è sostanzialmente scomparsa.

Nel 1891 Pellegrino Artusi con il suo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” (dall’eccezionale fortuna tipografica) dà una ricetta accurata del ripieno, composto da 30 grammi di prosciutto crudo, 20 grammi di mortadella, 60 grammi di midollo di bue, 60 grammi di parmigiano, un uovo, odore di noce moscata. “Con questa dose ne farete poco meno di trecento, e ci vorrà una sfoglia di tre uova”. Al tempo dell’Artusi, evidentemente, i tortellini erano abbastanza “vuoti”…

Soprassediamo sulle molteplici ricette giunte ai nostri giorni pubblicate da grandi cuochi o custodite gelosamente da ogni famiglia, ognuna lievemente differente, ma considerata sempre la migliore. Una cosa è certa: “i tortellini sono una storia d’amore” – scriveva Anna Angelini nella rubrica “A tavola” de II resto del Carlino. “Sono la storia d’amore delle donne che li hanno creati, proprio come si crea l’intesa d’amore, a poco a poco, ognuna arricchendoli con qualcosa nel ripieno, ma la base del tutto è la sfoglia rituale. Quella sfoglia che le figlie di oggi non sanno più fare, tranne pochissime”.

A proposito del tortellino esiste ancora un annoso problema: la carne. Dopo essere stata insaporita con odori, la carne va impiegata cruda, ovvero cotta con una lieve rosolatura, rendendola così più saporita? La chimica degli alimenti dà ragione alla rosolatura perché le alte temperature creano gradevoli aromi.
La querelle tuttavia continua ancora, anche se la ricetta depositata nel 1974 dalla Dotta Confraternita del Tortellino e dall’Accademia della Cucina Italiana prevede la rosolatura delle carni, la misura del riquadro (cm 4 /4,5 per lato) e il peso del singolo tortellino (grammi 5).

Rimaneva in sospeso il problema del ripieno. Benché molti gastronomi non fossero d’accordo sul codificare il ripieno del tortellino per lasciare un po’ di fantasia all’inventiva, la Dotta Confraternita in collaborazione con l’Accademia Italiana della Cucina, dopo aver indetto un concorso fra i lettori del Resto del Carlino, decise di dare una risposta definitiva. Fra le ricette pervenute e vagliate da esperti fu scelta quella inviata dalla signora Maria Lanzoni Grimaldi, nata a Borgo Panigale.

Nessuno ha mai detto che tale ricetta sia l’unica e immutabile, Nel mondo culinario il gusto è un fenomeno  in costante evoluzione. Fu scelta perché all’epoca fu reputata la migliore.

La vera marcia trionfale del Tortellino inizia alla metà dell’800 grazie alla produzione industriale ed all’evoluzione tecnologica del packaging (ossia l’imballaggio). Ne sono esempio le spedizioni in tutto il mondo, con la pubblicità di illustri personaggi come il francese Valéry: “Bologna è una delle città in cui si mangia di più e meglio, specialmente i tortellini”. Dagli anni ’40 del 1900 i tortellini vennero venduti anche nelle salumerie, “industrializzando” una produzione casalinga che si è mantenuta (quasi) sempre di ottimo livello.

Alla fine di questa storia non possiamo non ricordare l’importanza delle migliaia di “sfogline” che con fatica e maestria hanno conservato uno standard di prodotto sempre eccellente, apprezzato dai palati più raffinati.

Concludiamo con la famosa “Ode al tortellino” di autore incerto:

Quale cibo sopraffino
è il felsineo tortellino.
Dentro al brodo di cappone
te lo mangi in un boccone,
se poi metti panna o ragù,
te lo gusti ancor di più.
Con le uova e la farina
già la sfoglia vien divina,
ben tirata al mattarello:
il segreto è proprio quello!